Distanze tra edifici e superfici aggettanti -L’importanza della distinzione tra “luci” e “vedute” in materia di distanze – Condizioni e limiti per derogare i 10 metri nei gruppi di edifici – Distanze legali in caso di mutamento della normativa

Distanze tra edifici e superfici aggettanti

 Il tema delle distanze tra edifici apre molteplici profili di interesse oggetto di analisi e dibattito da parte della giurisprudenza, anche a causa del suo carattere trasversale attinente sia alla sfera privatistica sia a quella pubblicistica.

Per quanto attiene al profilo pubblicistico è noto che l’art. 9 del D.M. n 1444/1968, nel prescrivere per i nuovi edifici ricadenti in zone diverse dalle zone A “la distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”, predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le edifici in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tale previsione risulta coerente con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina delle distanze fra costruzioni prevista dal codice civile[1].

Quanto all’esatta portata oggettiva della norma, con riguardo alle nozioni di “parete finestrata” e “pareti antistanti”, secondo il costante orientamento della giurisprudenza nella verifica dell’osservanza delle distanze vanno considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate, per i loro caratteri strutturali e funzionali, ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono[2]. Sicché, assumo rilievo anche tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque sia la loro funzione, purché abbiano i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, escludendo sporti e aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, perché rientrano nel concetto di “costruzione” le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati cd. “aggettanti” che, seppure non corrispondano a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. In tal senso, è stato affermato che “Non sono computabili nel calcolo della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali), le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità, mentre non possono essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad estendere e ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso abitativo dell’edificio“ (Consiglio di Stato sez. VI, 18/01/2021, n.521).

Sempre su questa linea, si pone anche il consolidato orientamento interpretativo del giudice civile secondo cui “La eccezionale non computabilità, ai fini delle distanze, di elementi della costruzione può quindi riguardare solo quegli sporti o aggetti che non siano idonei a determinare intercapedini dannose o pericolose, consistendo in sporgenze di limitata entità, con funzione complementare di decoro o di rifinitura, mentre vengono in considerazione le sporgenze, implicanti, perciò, un ampliamento dell’edificio in superficie e volume, come, appunto, i balconi formati da solette aggettanti (anche se scoperti), o i pianerottoli di prolungamento dei setti in cemento armato, di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza, stabilmente incorporati nell’immobile, e ciò a maggior ragione qualora le distanze tra costruzioni siano stabilite in un regolamento edilizio comunale che non preveda espressamente un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie” (Cassazione civile sez. II, 04/01/2024, n. 239).

L’importanza della distinzione tra “luci” e “vedute” in materia di distanze

 Il richiamato art. 9 del D.M. 1444/1968, nel fissare la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”,  fa espresso ed esclusivo riferimento alle “pareti finestrate” per tali dovendosi intendere, in assenza di una precisa definizione normativa[3], “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci[4].

 Sul punto, la recente pronuncia T.A.R. Salerno, (Campania) sez. III, 01/12/2023, n.2841 ha ribadito come “la semplice possibilità di vedere o guardare frontalmente, che del resto è connaturata al genus “finestre o aperture”, non basta ad integrare la figura specifica della veduta; né peraltro è incompatibile con la più neutra nozione di “luce”, che, in negativo, è caratterizzata dal non permettere “di affacciarsi sul fondo del vicino”. È questo, di contro, il requisito tipico ed esclusivo della veduta, la quale proprio perché permette di “affacciarsi” e quindi di “guardare” non solo di fronte, ma anche “obliquamente e lateralmente”, conferisce all’apertura quella speciale attitudine visiva – consistente nell’assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale – che esula dalla semplice luce e da essa la discrimina.

Orbene, “per la sussistenza della veduta è necessaria la presenza cumulativa dei requisiti della inspectio, intesa come possibilità di vedere o guardare frontalmente il fondo del vicino, e della prospectio, intesa come affaccio mediante la sporgenza del capo dall’apertura che consente di guardare anche obliquamente e lateralmente il fondo del vicino”. Posto che deve ritenersi esclusa l’esistenza di un  “tertium genus” diverso dalle luci e dalle vedute, “va valutata quale luce e, pertanto, sottoposta alle relative prescrizioni legali, anche in difetto dei requisiti a tale scopo prescritti dalla legge, l’apertura che sia priva del carattere di veduta o prospetto; in tal caso, dunque, il proprietario del fondo vicino può sempre pretenderne la regolarizzazione, tenuto conto che il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all’acquisto, per usucapione della corrispondente servitù [5]“.

 Sulla non applicabilità dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 in punto di distanza minima in presenza di aperture da qualificare come “luci”, del resto, è stato evidenziato che, in tali casi, non vi è “da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a un’accurata ed approfondita disanima dei rapporti tra i vicini o i condomini, rientrando la presenza di eventuali diritti ostativi o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi, quali quelli di luce e veduta, nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, e non all’aspetto della legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello ius edificandi anche in sede di sanatoria[6]”.

Per completezza espositiva, si dà atto dell’esistenza di un diverso orientamento giurisprudenziale in forza del quale vengono ricomprese all’interno della “parete finestrata” non solo le mere aperture aventi natura di veduta, ma altresì le aperture qualificabili come semplici luci. In questo senso, si segnala la pronuncia Consiglio di Stato sez. II, 30/03/2022, n. 2326 secondo cui per “pareti finestrate”, “ai sensi dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, devono intendersi, non soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti[7]”.

Condizioni e limiti per derogare i 10 metri nei gruppi di edifici: il caso del cappotto termico

Come osservato dalla pronuncia Consiglio di Stato sez. IV, 17/05/2023, n.4933, “Le uniche eccezioni alla regola della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti sono: i) gli interventi di risanamento conservativo; (ii) le ristrutturazioni di edifici situati nelle zone omogenee A (centri e nuclei storici), dove le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale; iii) i gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con specifiche previsioni planivolumetriche; iv) la particolare deroga prevista per finalità di risparmio energetico (id est, il “cappotto termico”) di cui all’art. 2-bis, comma 1-ter, d.P.R. n. 380/2001, introdotto con d.l. n. 76/2020”.

Ora, appare interessante soffermarsi sull’eccezione relativa ai piani particolareggiati o di lottizzazione prevista espressamente dal terzo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, sui cui la recente pronuncia Cassazione civile sez. II, 04/01/2024, n. 236 ha chiarito che “agli effetti dell’art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione contestuale di “gruppi di edifici”, e cioè di una pluralità di nuovi febbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l’ipotesi della realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un isolato già edificato”.

Sulla deroga per il cd. “cappotto termico” prevista dall’art. 14, comma 7, del D.lgs. n. 102/2014 (poi sostituito dal D.lgs. n. 73/2020[8]), nella sentenza n. 6764 del  11/07/2023 il Consiglio di Stato si è pronunciato sul ricorso promosso da alcuni privati per l’annullamento della concessione edilizia con cui l’Amministrazione comunale aveva autorizzato i confinanti all’apposizione di un isolamento termico integrale con intonaco dell’edificio per uno strato complessivo di 12 cm – con conseguente violazione del limite di edificabilità previsto dal piano di attuazione e delle distanze legali tra edifici e confini – giustificata dal Comune ai ricorrenti mediante l’applicazione dell’art. 127, comma 6 della legge provinciale Bolzano n. 13/1997.

Il Consiglio di Stato non ha accolto il ricorso degli appellati in quanto, se da una parte non può essere accolto il richiamo all’art. 127, comma 6 dell’invocata legge provinciale n. 13/1997 (dichiarato incostituzionale dalla sentenza Corte cost. n. 114/2012 per violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 e, dunque, per violazione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile); dall’altra “Si deve però considerare che l’art. 14, comma 7, del d.lgs. 102 del 04.07.2014 (in materia di efficienza energetica) ha stabilito che entro i limiti del maggior spessore delle murature esterne e degli elementi di chiusura superiori ed inferiori, necessario per ottenere una riduzione minima del 10 per cento dei limiti di trasmittanza previsti dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, è permesso derogare, nell’ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del d.p.r. 380/2001, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro stradale e ferroviario, nonché alle altezze massime degli edifici (cfr. Cassazione civile , sez. II , 18/06/2020 , n. 11845: L’art. 14 d.lgs. 102/2014 e l’art. 11 d.lgs. 115/2008 prevedono che in relazione agli interventi di riqualificazione energetica degli edifici che comportino aumenti di spessore delle pareti esterne si possa, entro certi limiti, derogare alle distanze degli edifici dai confini, alla condizione, però, che l’intervento sia tale da ottenere una riduzione minima del dieci per cento dei limiti di trasmittanza previsti dal d.lgs. 192/2005 e successive modificazioni)”.

Distanze legali in caso di mutamento della normativa: il punto della Suprema Corte di Cassazione

 L’incidenza dello ius superveniens  in materia di distanza tra costruzioni è stata indagata ampiamente dalla giurisprudenza a mente della quale “in materia di distanze nelle costruzioni, infatti, qualora subentri una disposizione derogatoria favorevole al costruttore, si consolida – salvi gli effetti di un eventuale giudicato sull’illegittimità della costruzione – il diritto di quest’ultimo a mantenere l’opera alla distanza inferiore, se, a quel tempo, la stessa sia già ultimata, restando irrilevanti le vicende normative successive. Il sopravvenire della disciplina normativa meno restrittiva comporta, invero, che l’edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non possa più essere ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può pretendere l’abbattimento o, comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione” (Cassazione civile sez. II, 11/05/2023, n.12751[9]).

 Sotto ulteriore profilo la sentenza de qua ha ricordato che,“ in tema di distanze tra costruzioni, il D.M. n. 2 aprile 1968 n. 1444, art. 9 comma 2, essendo stato emanato su delega della l. 17 agosto 1942 n. 1150, art. 41 quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla l. 6 agosto 1967 n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica[10] .

 Del pari, come osservato dalla già richiamata pronuncia Consiglio di Stato n. 4933/2023, i limiti fissati dal D.M. n. 1444/1968 “integrano il regime delle distanze nelle costruzioni con efficacia precettiva, in quanto perseguono l’interesse pubblico di tutela igienico sanitaria collettiva, e non la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili confinanti alla nuova costruzione (regolata, invece, dal codice civile). Ragion per cui, le distanze di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti devono ritenersi inderogabili, come tali vincolanti sia per i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, sia per i privati (i confinanti non potrebbero, con patti stipulati tra loro, derogarle)[11]”.

Ciò posto, quanto alla disciplina posta dai regolamenti edilizi, si segnala la recente pronuncia Cassazione civile sez. II, 05/10/2023, n. 28041 secondo cui “I regolamenti edilizi in materia di distanze tra costruzioni contengono norme di immediata applicazione, salvo il limite, nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti diritti quesiti (per cui la disciplina più restrittiva non si applica alle costruzioni che, alla data dell’entrata in vigore della normativa, possano considerarsi già sorte), e, nel caso di norme più favorevoli, dell’eventuale giudicato formatosi sulla legittimità o meno della costruzione. Ne consegue la inammissibilità dell’ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi medio tempore, ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l’avvento della nuova disciplina”.

[1] cfr. Consiglio di Stato 10/09/2018, n. 5307Corte di Cassazione civile 19/02/2019, n. 4834.

[2] cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 10/10/2023, n.8834.

[3] L’art. 900 c.c. si limita a disporre che “Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno il passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”.

[4] Consiglio di Stato sez. IV, 05/10/2015, n.4628.

[5] T.A.R. Salerno, (Campania) sez. III, 01/12/2023, n.2841.

[6] T.A.R. Salerno, (Campania) sez. III, 01/12/2023, n.2841.

[7] cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22 ottobre 2013 n. 5557.

[8] L’art. 14, comma 7, del D.L. n. 102/2014 – come modificato dal D.lgs. n. 73/2020 – dispone che “Nel caso di interventi di manutenzione straordinaria, restauro e ristrutturazione edilizia, il maggior spessore delle murature esterne e degli elementi di chiusura superiori ed inferiori, necessario per ottenere una riduzione minima del 10 per cento dei limiti di trasmittanza previsti dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, e successive modificazioni, certificata con le modalità di cui al medesimo decreto legislativo, non è considerato nei computi per la determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e dei rapporti di copertura. Entro i limiti del maggior spessore di cui sopra, è permesso derogare, nell’ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro stradale e ferroviario, nonché alle altezze massime degli edifici. Le deroghe vanno esercitate nel rispetto delle distanze minime riportate nel codice civile”.

[9] Nella pronuncia in menzione, i giudici hanno ricostruito la disciplina della deroga alle distanze in ipotesi di demolizione e ricostruzione per effetto delle modifiche apportate all’art. 3, comma 1 lett. d) e all’art. 2-bis, comma 1-ter del D.P.R. n. 380/2001 dalla legge n. 120/2020, per poi giudicare l’intervento non rientrante nel regime derogatorio in quanto “Si tratta di costruzione realizzata dal privato in violazione del D.M. n.1944-68, art. 9, in ragione dell’entità delle modificazioni apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, che rendevano l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente. L’opera aumentava il volume e modificava la sagoma dell’edificio demolito, senza rispettare le distanze preesistenti, e cioè di quelle conformi alla normativa vigente al momento in cui è stato realizzato l’intervento originario”.  Allo stato attuale della normativa, in ogni caso di demolizione con ricostruzione – e quindi anche in presenza di aumento di volumetria nei casi consentiti dall’art. 3, lett. d)  del D.P.R. n. 380/2001  – la costruzione deve rispettare le distanze preesistente; come chiarito anche dalla relazione ministeriale al decreto semplificazioni (D.L. n. 76 del 2020), “l’art. 2, comma 1-ter, ha rimosso il vincolo del medesimo sedime e della medesima sagoma ma solo per gli interventi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione disciplinati da un piano urbanistico che preveda un programma di rigenerazione urbana, nella specie non sussistente”.

[10]  Ulteriore profilo di ricorso riguardava la qualificazione dell’intervento edilizio che, ad avviso dei ricorrenti, trattandosi di “sopralzo” di un edificio preesistente e non di nuova costruzione, doveva ritenersi legittimo ai sensi dell’art. 5 delle NTA del Comune secondo cui “in caso di sopralzo la verifica delle distanze si intende soddisfatta ove siano mantenuti i rapporti e le distanze esistenti“, in luogo della distanza di metri dieci rispetto alle pareti finestrate dei fabbricati antistanti applicabile agli interventi di nuova costruzione e di ampliamento ai sensi dell’art. 8 delle NTA. Sotto tale profilo, poiché l’intervento edilizio era diverso dal preesistente manufatto per forma, altezza, volume e superficie, i giudici hanno statuito che doveva osservarsi la distanza di dieci metri dall’edificio frontistante, per inserzione automatica dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 ed in conformità all’art. 8 delle NTA del Comune.

[11]  Nella pronuncia de qua la Cassazione ha accolto il ricorso promosso da un Comune avverso la sentenza resa dal T.A.R. Puglia, giudicando legittimo l’annullamento in autotutela del permesso di costruire, nonché la comunicazione di (asserita) formazione del silenzio assenso sulla istanza di permesso di costruire, sul presupposto dell’illegittimità della fonte normativa secondaria (piano urbanistico generale) rispetto alla fonte nazionale sovraordinata di cui al D.M. n. 1444/1968.