GENNAIO 2024 Il concetto di immobili legittimamente realizzati. Il permesso di costruire in sanatoria “accertamento di conformità”

Il concetto di immobili legittimamente realizzati: l’art. 9-bis e l’art. 34-bis del D.P.R. n. 380/2001.

Lo svolgimento degli interventi edilizi declinati dall’art. 3 D.P.R. n. 380/2001 presuppone, non soltanto il possesso del relativo titolo edilizio (ove prescritto), ma anche la loro afferenza ad immobili non abusivi, tenuto conto che altrimenti le opere aggiuntive parteciperebbero comunque delle stesse caratteristiche di abusività dell’opera principale.

Tale ultima condizione attiene al concetto di “stato legittimo” dell’immobile – già utilizzato nella prassi degli uffici tecnici comunali per la verifica della legittimità dell’immobile oggetto di un intervento edilizio ovvero, nel settore immobiliare, per la verifica della regolarità edilizia dell’immobile oggetto di alienazione – che trova oggi il proprio riferimento normativo al comma 1-bis dell’art. 9-bis del D.P.R. n. 380/2001in cui possono essere agevolmente distinte tre fattispecie[1].

La prima concerne un immobile o un’unità immobiliare realizzata in virtù di un “titolo abilitativo” in cui “Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali”.

La seconda fattispecie riguarda gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio in cui “lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali[2]”.

La terza fattispecie concerne il caso più delicato in cui dagli archivi pubblici siano andati dispersi i titoli di legittimazione dell’immobile o dell’unità immobiliare, né esistono copie dei medesimi, neppure formali. In tale caso, il terzo periodo del comma 1-bis in discorso prevede la possibilità di ricorrere ai mezzi di prova alterativi inerenti alle ipotesi degli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio.

Lo stato legittimo dell’immobile non è escluso dalle irregolarità edilizie più lievi disciplinate dal novellato art. 34-bis del D.P.R. n. 380/2001 che, nel sostituire l’abrogato art. 34, comma 2-ter, ha ampliato e specificato la nozione di tolleranza costruttiva prevedendo che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo[3].

Inoltre, limitatamente agli immobili non sottoposti a tutela ai sensi del D.lgs. 42/2004, il comma 2 disciplina una fattispecie ulteriore e diversa rispetto a quella del comma 1, secondo cui costituiscono tolleranze esecutive “le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile”. Si tratta, dunque, di fattispecie consistenti in trascurabili formali difformità, che avrebbero potuto essere regolarizzare in fase costruttiva con una semplice variante, il cui presupposto è che gli scostamenti dagli elaborati progettuali non comportino violazione della disciplina dell’attività edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile.

Infine, al comma terzo dell’art. 34-bis è previsto che le tolleranze esecutive appena richiamate, realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, “non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie, ovvero, con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento, della comunione, di diritti reali”.

La peculiarità della disposizione consiste proprio nell’affermazione normativa che le ipotesi in questione sono conformi alle norme e “non costituiscono violazioni edilizie” in alcun modo, superando per limpidezza il testo dell’abrogato art. 34, comma 2-ter nel quale il legislatore si limitava a statuire che con esse “non si ha parziale difformità dal titolo abilitativo”: in tal modo, non si verifica alcun meccanismo sanante, ma si dà luogo ad un sistema preclusivo, escludendo radicalmente che le fattispecie disegnate dal legislatore possano rappresentare una violazione delle disposizioni in materia edilizia[4].

Tale previsione disciplina esattamente le modalità alternative che la dichiarazione può assumere: nel primo caso, il tecnico la inserisce “ai fini dell’attestazione dello stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie”, trattandosi  di una dichiarazione funzionale all’effettuazione di ulteriori interventi edilizi, rispetto a quelli pregressi nei quali egli abbia avuto modo di verificare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione, in concreto, delle regole in tema di tolleranze. Nella seconda ipotesi, invece, la dichiarazione prescinde dall’esecuzione di nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie, e assume la forma “una apposita dichiarazione asseverata da allegarsi agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali”.

 

Il permesso di costruire in sanatoria: il ristretto ambito applicativo del cd. “accertamento di conformità”.

Il D.P.R. n. 380/2001 disegna un sistema graduato delle misure repressive degli abusi edilizi, disciplinandone gli effetti sul piano civile, amministrativo e penale, oltre che le rigorose possibilità di sanatoria.

In riferimento a quest’ultimo aspetto, al fine di poter regolarizzare gli immobili realizzati senza l’opportuno titolo edilizio, l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 prevede la possibilità di richiedere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 23, comma 01, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”, ove “l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”(comma 1). Il rilascio è altresì subordinato “al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso” (comma 2).

Parimenti l’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare la sanatoria degli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA, dispone che “ove l’intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda, il responsabile dell’abuso o il proprietario dell’immobile possono ottenere la sanatoria dell’intervento versando la somma, non superiore a 5.164 euro e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all’aumento di valore dell’immobile valutato dall’agenzia del territorio”.

Sulla scorta di quanto sopra, è di tutta evidenza come il requisito della cd. “doppia conformità” sia da considerarsi principio della legislazione statale con la conseguenza che, come ribadito a chiare lettere dalle più recenti pronunce della Corte di legittimità, la sanatoria degli abusi edilizi, idonea ad estinguere il reato di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001 e a precludere l’irrogazione dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva, può essere solo quella rispondente alle condizioni espressamente indicate dall’art. 36, dovendosi escludere la possibilità che tali effetti possano essere attributi alla cd. “sanatoria giurisprudenziale”, che ha cercato di mitigare gli effetti della rigorosa applicazione della norma ammettendo la sanabilità di un’opera – anche se abusivamente realizzata – qualora ne risulti la conformità alla disciplina urbanistica-edilizia vigente solo al momento del rilascio del titolo abilitativo.

A conferma dell’inapplicabilità della sanatoria giurisprudenziale, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa si è espresso nel senso che, in assenza di una specifica previsione legislativa, “l’istituto della c.d. ‘sanatoria immobiliare’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territori, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 11/09/2018 n. 5319).

Secondo tale impostazione, l’abbandono di detta tipologia di sanatoria a favore di un approccio più stringente e garantista qual è quello dell’attuale sanatoria edilizia – dove il punto di equilibrio fra efficienza e legalità è stato individuato dal legislatore nel consenso alla sanatoria dei soli abusi formali – evita un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato le sole norme procedimentali dell’attività edificatoria e una più logica applicazione dei principi di efficienza e buon andamento della P.A. che sarebbero irrimediabilmente violati ove agli aspetti formali si desse un peso preponderante rispetto a quelli sostanziali.

 

[1] Comma aggiunto dall’art. 10, comma 1, lett. d), della legge n. 120/2020.

[2] L’obbligo di Licenza Edilizia, introdotto dalla Legge n. 1150/1942 (cd. “Legge Urbanistica”) al fine di disciplinare l’edificazione nei centri abitati, è stato esteso anche al di fuori dei centri abitati con l’entrata in vigore della legge n. 765/1967 (cd. “Legge Ponte”). Deve peraltro rilevarsi come, pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della stessa legge n. 1150/1942, l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione poteva essere disposto dal regolamento edilizio comunale, emanato in esecuzione della potestà regolamentare attribuita ai comuni nella materia edilizia dai testi unici della legge comunale e provinciale susseguitisi nel tempo (sul punto si segnala l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa l’implicita abrogazione delle disposizioni pianificatorie o regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo edilizio per le costruzioni emesse ante 1942, ovvero ante  1967 al di fuori dei centri abitati, da parte della disciplina nazionale in discorso).

[3] Articolo introdotto dall’art. 10, comma 1, lettera p), della legge n. 120/2020.

[4] G. TRAPANI, in Foro Amministrativo (Il), fasc.5, 1° MAGGIO 2021, pag. 867.