Novembre 2023 – Abusi su suoli demaniali – Tolleranze costruttive – Accertamento di conformità

Abusi su suoli demaniali  Tolleranze costruttive Accertamento di conformità

 

La demolizione degli abusi su suoli demaniali.

 

L’analisi della normativa e dei principi espressi dalla giurisprudenza in materia di ordinanza di demolizione richiede di fare un ulteriore approfondimento in relazione alla disciplina posta dall’art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 con riferimento agli abusi edilizi commessi su pubblici da parte di soggetti diversi da Amministrazioni statali – ossia da qualsiasi altro soggetto pubblico o privato – il cui regime è caratterizzato da un maggiore rigore sanzionatorio rispetto a quello previsto dall’art. 31 .

 

Nel dettaglio, l’art. 35 d.P.R. 380/2001 prevede che “qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28, di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non reiterabile, ordina al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all’ente proprietario del suolo”; il tutto con l’espressa precisazione che “la demolizione è eseguita a cura del Comune ed a spese del responsabile dell’abuso”.

 

La disposizione in questione – volta a tutelare le aree demaniali o di enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati – non lascia all’Ente locale alcuno spazio per valutazioni discrezionali ed impone la demolizione degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire sui suoli demaniali in quanto preordinata a evitare l’indebito utilizzo del bene demaniale; non può quindi assumere rilevanza l’approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.[1]

 

In tale prospettazione,  la sanzione demolitoria degli abusi edilizi ha natura oggettiva e colpisce il bene abusivo indipendentemente da chi l’abbia commesso, per cui la nozione di “responsabile dell’abuso” è riferibile a più categorie di soggetti, tra cui rientra non solo chi ha posto in essere materialmente la violazione contestata, ma anche chi ha la disponibilità del immobile al momento dell’emissione della misura repressiva, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi nei confronti degli esecutori materiali delle opere, sulla base dei rapporti interni intercorsi. [2]

 

Diversamente opinando si giungerebbe a conclusioni contrarie alla ratio normativa, con il risultato paradossale di consentire l’immunità delle opere da eventuali misure ripristinatorie per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate. Per tali ragioni, la giurisprudenza amministrativa si è espressa sui presupposti per la legittima irrogazione dell’ordine di demolizione chiarendo che lo stesso “non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive”(T.A.R. Napoli, (Campania) sez. IV, 15/03/2022, n.1731).

 

Si osserva altresì che,  l’art. 35, D.P.R. n. 380/2001 detta una disciplina differente rispetto a quella ordinaria prevista all’art. 31 non richiedendo un termine preciso per la diffida al ripristino, giustificata dalla peculiare gravità della condotta sanzionata connotata dalla realizzazione di abusi su suoli pubblici, con la precisazione che l’utilizzo della locuzione “previa diffida non rinnovabile” “non intende assoggettare il potere di vigilanza ad una sorta di decadenza o sanatoria, bensì semplicemente prescrivere al dirigente incaricato di non procrastinare (accordando ulteriori diffide) l’attuazione delle misure necessarie a ripristinare la legalità. Cosicché il provvedimento di demolizione che contenga in sé anche la diffida non è illegittimo e alla diffida può seguire immediatamente l’ordinanza di demolizione, senza che il destinatario possa trarre alcun beneficio dalla sua preventiva notificazione, né alcuna concreta lesione dalla sua mancanza” (Consiglio di Stato sez. VI, 08/11/2022, n. 9807).

 

 

Applicazioni giurisprudenziali in tema di cd. “tolleranze costruttive”.

 

A questo punto, prima di affrontare il tema degli istituti volti alla regolarizzazione degli abusi edilizi, si intende approfondire la disciplina delle cd. “tolleranze costruttive”, così come normate dall’art. 34-bis del D.P.R. n. 380/2001. Tale norma, che riproduce con alcune modifiche la disposizione di cui all’abrogato art. 34, comma 2-ter, prevede al comma 1 che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”.[3]

 

Il legislatore, senza dare una definizione normativa della parziale difformità, ha previsto una soglia entro cui le stesse devono ritenersi giuridicamente irrilevanti, risultando inidonee a generare una difformità dal titolo edilizio apprezzabile sul piano delle conseguenze sanzionatorie. Al riguardo, deve darsi continuità all’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale le tolleranze costruttive prevedono sì un regime di franchigia – nel senso che fino a tale valore sono irrilevanti i discostamenti dal titolo edilizio – ma ciò non significa che una volta superato il 2% questo sia automaticamente da detrarre: detto altrimenti, “fino alla differenza del 2% non ha luogo alcuna sanzione, ma una volta superata tale soglia è aperto totalmente e non parzialmente l’ambito di applicazione della sanzione, senza quindi alcuna deroga” (Consiglio di Stato sez. VI, 08/08/2023, n.7685).

 

Ciò posto, la base del calcolo del margine di tolleranza che esclude l’abusività dell’opera non può che parametrarsi alle singole previsioni del titolo edilizio e alle singole porzioni dell’immobile e non può essere calcolato sul volume complessivo dell’immobile, considerata l’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli scostamenti di lieve entità.  In questo senso, la giurisprudenza amministrativa ha specificato che “la percentuale su cui misurare lo scostamento o, se si vuole, la abusività dell’intervento, va posta in relazione con la porzione dell’immobile cui esso accede, e non con la superficie dell’intero palazzo: esemplificativamente, quanto alle opere che hanno certamente comportato incremento di volumetria e superficie utile (…) il computo dell’ampliamento del magazzino per mq. 13,40 (pratica 322166) ai fini del contenimento dello stesso nella misura del 2% va riferito al locale-magazzino medesimo, e non all’intero plesso, ovvero anche solo al piano dove lo stesso insiste”; con la precisazione che “la tolleranza globale del 2% all’intero fabbricato non può trovare applicazione neanche nel caso di unica proprietà” (T.A.R. Cagliari, (Sardegna) sez. I, 29/04/2022, n.297).[4]

 

Quanto alla prova del rispetto di tale limite, la stessa “deve essere fornita dal costruttore o proprietario dell’immobile, come si desume dallo stesso comma 3 della citata previsione normativa, per il quale ‘Le tolleranze esecutive di cui ai commi 1 e 2 realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili’, il che appare compatibile, giacché solo chi realizza l’opera può chiaramente indicare se gli scostamenti dai parametri edilizi rispetto al titolo abilitativo rispettano la tolleranza prevista dalla legge” (T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. II, 02/07/2022, n.1565).

 

 

Sanatoria edilizia: l’ambito applicativo delle due tipologie di accertamento di conformità previste dal D.P.R. n. 380/2001.

 

Esaminati gli interventi edilizi abusivi sotto il profilo definitorio e sanzionatorio, resta ora da analizzare l’aspetto attinente la regolarizzazione degli stessi, come disciplinata agli articoli 36 e 37, comma 4 del D.P.R. n. 380/2001 i quali, sia nel caso di difformità totali che di difformità parziali, la subordinano al requisito della cd. “doppia conformità” rispetto alla disciplina vigente sia al momento della realizzazione delle opere che al momento dell’istanza.

 

Nel dettaglio, l’art. 36 circoscrive il relativo ambito di applicazione agli  “interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 23, comma 01, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”, per poi subordinare la possibilità per responsabile dell’abuso, o dell’attuale proprietario dell’immobile, di richiedere ed ottenere il rilascio del permesso in sanatoria alla conformità dell’opera abusiva “alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”. Il rilascio del permesso è, poi, “subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.

 

Tale possibilità è prevista anche dall’art. 37, comma 4  del D.P.R. n. 380/2001 che – con riferimento agli  interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività dispone che “ove l’intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda, il responsabile dell’abuso o il proprietario dell’immobile possono ottenere la sanatoria dell’intervento versando la somma, non superiore a 5.164 euro e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all’aumento di valore dell’immobile valutato dall’agenzia del territorio”.

 

Richiamato il quadro normativo di riferimento, occorre soffermarsi sugli elementi essenziali dell’accertamento, partendo dal principio cardine della doppia conformità sulla scorta del quale la giurisprudenza ha statuito che “occorre considerare il dato normativo che consente la qualificazione dell’intervento realizzato a prescindere dalle successive evoluzioni della categoria che, diversamente opinando, si tradurrebbero nell’applicazione retroattiva dello ius superveniens al fine di qualificare un intervento in precedenza realizzato”, con la precisazione che “il titolo in sanatoria non può contenere alcuna prescrizione, poiché altrimenti postulerebbe, in contrasto con l’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 citato, non già la “doppia conformità” delle opere abusive, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni e, quindi, non esistente ne’ al momento della realizzazione delle opere, ne’ al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, bensì solo alla data futura e incerta in cui il ricorrente abbia ottemperato a tali prescrizioni” (Consiglio di Stato sez. VII, 29/09/2023, n.8593)

 

Per quanto poi concerne il provvedimento di sanatoria rilasciato dall’Amministrazione la richiamata pronuncia ha statuito che “il procedimento per la verifica di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 sfocia in un provvedimento di carattere assolutamente vincolato, il quale non necessita di altra motivazione oltre a quella relativa alla corrispondenza (o meno) dell’opera abusiva alle prescrizioni urbanistico-edilizie vigenti sia all’epoca di realizzazione dell’abuso sia a quella di presentazione dell’istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che “non è annullabile il provvedimento per vizi formali non incidenti sulla sua legittimità sostanziale e il cui contenuto non avrebbe potuto essere differente da quello in concreto adottato, poiché l’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 attraverso la dequotazione dei vizi formali dell’atto, mira a garantire una maggiore efficienza all’azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all’attribuzione del bene della vita richiesto dall’interessato”.

 

Altro tema di interesse attiene l’operatività dell’istituto del silenzio-assenso in relazione al rilascio dei titoli edilizi in sanatoria poichè, a differenza di quanto disposto dall’art. 36, comma 3 del D.P.R. n. 380/2001[5], l’art. 37 non prevede espressamente un’ipotesi di silenzio significativo, non disponendo alcunché sulla definizione del procedimento.

 

In assenza di un chiaro dato normativo, la giurisprudenza ha aderito ad orientamenti non univoci, di cui si segnala la recente pronuncia del Consiglio di Stato sez. II, 20/02/2023, n.1708 che ha escluso l’applicabilità alla fattispecie della SCIA in sanatoria del cd. “silenzio-rifiuto” in quanto l’art. 37 stabilisce espressamente che il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con applicazione e relativa quantificazione della sanzione pecuniaria a cura del responsabile del procedimento. Ne deriva che “nell’ipotesi di s.c.i.a. in sanatoria, il procedimento può ritenersi favorevolmente concluso per il privato solo allorquando vi sia un provvedimento espresso dell’Amministrazione procedente, configurandosi in assenza un’ipotesi di silenzio inadempimento”. Ad avviso dei giudici, tale soluzione “appare più conforme alla ratio della sanatoria di opere abusive già realizzate, che necessita di una valutazione espressa dell’amministrazione sulla sussistenza della doppia conformità, rispetto al regime di opere ancora da realizzare alle quali si attaglia la disciplina ordinaria della S.C.I.A., come metodo di semplificazione del regime abilitativo edilizio”.

 

Parimenti, giova ricordare il diverso orientamento giurisprudenziale a cui ha aderito il Consiglio di Stato con la pronuncia n. 1534/2014, successivamente confermata da numerose sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali[6], secondo cui il silenzio della P.A. debba qualificarsi come assenso (“la SCIA in sanatoria, presentata ex art. 37 D.P.R. n. 380 del 2001, si presta a rendere operanti le correlate prescrizioni di cui all’art. 19 e ss., legge n. 241 del 1990, in materia di silenzio assenso, dovendo essere ragionevolmente riconosciuto a tale segnalazione carattere e natura confessoria, diretta a provare la verità dei fatti attestati e a produrre, con l’inutile decorso del tempo per l’emanazione di provvedimenti inibitori, effetti direttamente stabiliti dalla legge, indipendentemente da una diversa volontà delle parti, ossia l’avvenuta formazione del titolo abilitativo in sanatoria”); diversamente, altro indirizzo giurisprudenziale qualifica il silenzio sull’istanza di sanatoria come silenzio-rigetto con la conseguenza che, anche qualora la procedura dell’accertamento di conformità sia esperita in relazione a un intervento edilizio oggetto di SCIA, opererebbe il meccanismo previsto dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001.[7]

 

 

[1] cfr., tra le tante: Consiglio di Stato sez. VII, 14/11/2022, n.9960; Consiglio di Stato, Sez. VI , 12 aprile 2019, n. 2396T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. II, 4 aprile 2019, n. 745.

[2] cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 26/03/2020, n. 2122; Sez. VI, 21/11/2016 n. 4849; T.A.R. Campania – Napoli Sez. VII, 15/11/ 2018, n. 6631.

[3] Le tolleranze di tipo “costruttivo” devono essere distinte dalle cd. “tolleranze di esecutive” di cui al comma 2 della norma in menzione che, a differenza delle prime, non richiedono il rispetto del requisito percentuale di cui al comma 1 e sono subordinate alla condizione che “non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile”.

[4] Consiglio di Stato, sez. IV, 22/01/2018, n. 405; in termini Consiglio di Stato, Sez. II, 07/01/2021, n. 230.

[5] L’art. 36, comma 3 del D.P.R. n, 380/2001 dispone che “sulla richiesta della concessione in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.

[6] ex multis: T.A.R. Salerno (Campania), Sez. II, 07/02/2022, n. 379; T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. II, n. 507/2020; T.A.R. Lazio, Sez. II-bis, n. 156/2018.

[7] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 10/06/2019 n. 3146T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 21/03/2017 n. 676; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 21/03/2006 n. 642.