NOVEMBRE 2023 – Potestà pianificatoria – pianificazione urbanista aspettative privato – perequazione e compensazione.

Potestà pianificatoria – pianificazione urbanista aspettative privato – perequazione e compensazione.

 

Potestà pianificatoria: discrezionalità e ambito di estensione del potere di pianificazione urbanistica.

 

La presente disamina intende passare in rassegna i più significativi approdi giurisprudenziali in ordine ad alcuni tra i profili maggiormente dibattuti e tra gli istituti di maggior interesse in materia di pianificazione urbanistica, edilizia, ambiente e paesaggio: ragioni di sinteticità impongono pertanto di procedere illustrando solo talune delle posizioni assunte dalle pronunce di legittimità e di merito relativamente ad aspetti che più frequentemente assumono rilievo nella prassi.

 

Appare opportuno prendere le mosse della trattazione che segue richiamando quanto statuito in tema di potestà pianificatoria comunale, ricordando che «[…] secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale […] le scelte urbanistiche effettuate dalla P.A. sono accompagnata da un’ampia valutazione discrezionale che nel merito appaiono insindacabili, e attaccabili solo per errori di fatto e abnormità delle scelte» e che «in ragione di tale discrezionalità tecnico-amministrativa, l’Amministrazione non è tenuta a fornire  un’apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio, che siano collimanti con i fini generali dello strumento urbanistico […]»: si è osservato, pertanto, che «le scelte adottate per ciò che attiene alla destinazione delle singole aree non necessitano di specifica motivazione se non nel caso che dette scelte vadano ad incidere su posizioni giuridicamente qualificate di cui i destinatari sono titolari […]. Invero le posizioni differenziate in presenza delle quali l’Amministrazione è tenuta a fornire idonea e specifica motivazione circa la scelta urbanistica operata sono quelle rappresentate dall’esistenza di piano e/o progetti di lottizzazione già approvati oppure da giudicati già formatisi […]» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4072/2015)[1].

 

Tale indirizzo pretorio è stato ribadito anche in tempi recenti, essendo stato riaffermato il «[…] noto principio generale secondo cui le scelte urbanistiche pubbliche, connotate da ampia discrezionalità, sono sindacabili dinanzi al giudice amministrativo solo allegando gravi vizi logico-valutativi o procedimentali […]

le possibili discrezionali opzioni urbanistiche non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nella precedente strumentazione, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli; le nuove scelte semmai potrebbero necessitare soltanto di specifica motivazione, ma solo qualora quel precedente favor aedificandi poi cessato avesse assunto una prima concretizzazione in una disciplina urbanistica in itinere tale da ingenerare un’aspettativa qualificata alla conservazione della destinazione precedente […]» (Consiglio di Stato, sez. II, n. 3255/2020).

 

 

Pianificazione urbanistica e tutela delle aspettative edificatorie dei privati.

 

Si segnala che – nel solco dell’orientamento sopra menzionato – con la sentenza n. 7723 del 9 agosto 2023, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha ribadito i «principi elaborati dalla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato […] sui limiti della tutela delle aspettative edificatorie dei privati rispetto all’esercizio di poteri pianificatori urbanistici, ambientali e paesaggistici, secondo cui:

 

  1. a) le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità;

 

  1. b) anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione (c.d. polverizzazione della motivazione), oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l’espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione allo strumento urbanistico generale, a meno che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni;

 

  1. c) la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell’attitudine edificatoria di un’area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio – rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo […]”;

 

  1. d) con riferimento all’esercizio dei poteri pianificatori urbanistici, la tutela dell’affidamento è riservata ai seguenti tassativi casi:

 

d1) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 2 aprile 1968, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona;

 

d2) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;

 

d3) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di silenzio rifiuto su domande di rilascio di titoli edilizi), recanti il riconoscimento del diritto di edificare;

 

d4) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo;

 

d5) una posizione di vantaggio (derivante da una convenzione urbanistica o da un giudicato) può essere riconosciuta (e quindi essere oggetto della tutela da parte del giudice amministrativo) soltanto quando abbia ad oggetto interessi oppositivi e non invece quando si tratti di interessi pretensivi, come è nel caso in esame in cui si tratta dell’esercizio dello ius variandi su istanza del privato;

 

  1. e) le scelte contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica possono contemplare il sovradimensionamento degli standard […], fatto salvo l’obbligo di una motivazione rafforzata che illustri le ragioni per le quali si è deciso di prevedere una dotazione di standard superiore a quella minima fissata dalla legge sebbene non si richieda nemmeno in tal caso una motivazione puntuale che riguardi le singole aree […];

 

  1. f) il potere di pianificazione urbanistica del territorio non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, con particolare riferimento alla disciplina delle possibilità e dei limiti edificatori delle stesse, ma deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico – sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati; sotto tale angolazione è ben possibile che la destinazione agricola sia imposta a determinati suoli per finalità di conservazione ambientale […], senza che ciò possa essere ascritto all’esercizio di un larvato potere espropriativo […];

 

  1. g) in sede di adozione del p.r.g., il Comune può legittimamente introdurre vincoli o limitazioni di carattere ambientale […]. La sussistenza di competenze statali e regionali in materia di tutela di determinati ambiti territoriali storicamente qualificati e di pregio naturale non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un p.r.g. Il p.r.g., nell’indicare i limiti da osservare per l’edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre, infatti, che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti da altri livelli di pianificazione nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse ambientale […]» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 7723/2023) [2].

 

 

Riflessi della pianificazione sulla proprietà privata: gli istituti della perequazione e della compensazione.

 

Con riguardo alla pianificazione urbanistica meritano senz’altro di essere menzionate le tecniche pianificatorie basate sull’utilizzo e sulla circolazione dei diritti edificatori: ci si riferisce, in particolare, agli istituiti della perequazione e della compensazione, che – unitamente a quelle forme di incentivazione che muovono dall’attribuzione di diritti edificatori in funzione premiale – ne costituiscono il fulcro.

 

Rinviando ad autonoma trattazione per la puntuale disamina di tutti gli aspetti di rilievo, in questa sede preme in primo luogo richiamare la pronuncia resa nel 2020 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che rappresenta uno tra i più significativi precedenti in materia.

 

Tale decisione ha evidenziato – tra l’altro – che «i diritti edificatori, di progressiva diffusione nelle procedure e nelle prassi di pianificazione urbanistica a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, si pongono […] quale strumento di evoluzione e superamento della metodica della c.d. “zonizzazione”.

 

Per quanto anche quest’ultima (associata al regime degli standard edilizi di cui all’art. 17 della “L. Ponte” n. 765 del 1967, modificativa della L. urbanistica fondamentale del 1942) costituisse una tappa evolutiva di modernizzazione e razionalizzazione della pianificazione urbanistica – mediante la suddivisione del territorio comunale in varie zone di qualificazione, intervento e destinazione d’uso – rispondente ad un governo territoriale il più possibile ordinato, oggettivo e satisfattivo di tutte le complesse esigenze facenti capo alle comunità locali, se ne sono di essa al contempo riconosciuti i limiti. Rappresentati, da un lato, dalla disparità di trattamento riservata ai proprietari di fondi del tutto omogenei a seconda della casualità della loro ubicazione (tanto da determinare, in condizioni analoghe di partenza, ora effetti sostanzialmente ablativi ed ora vere e proprie rendite di posizione correlate alla edificabilità della zona di assegnazione ed alla sua misura) e, dall’altro, dai costi e dai tempi gravanti sugli enti pubblici attuatori per l’acquisizione espropriativa di determinate aree e la loro trasformazione a destinazione pubblica.

 

Si tratta di controindicazioni che la c.d. urbanistica consensuale e postvincolistica – a sua volta espressione d’ambito della più ampia nozione definita di amministrazione per accordi – intende evitare o attenuare proprio attraverso il riconoscimento ai proprietari chiamati a concorrere alla pianificazione generale di una posizione giuridica qualificata a fronte della cessione pattizia dei suoli, ovvero della imposizione su di essi di restrizioni o anche di vincoli assoluti di inedificabilità.

 

È appunto l’insieme indistinto di queste posizioni giuridiche qualificate che viene riassuntivamente indicato con il sintagma “diritti edificatori”.

 

I quali, va detto fin d’ora, non negano, ma anzi presuppongono – consentendone variamente l’esercizio delocalizzato – che lo jus aedificandi costituisca una naturale estrinsecazione del diritto di proprietà del suolo, sebbene sottoposto alle condizioni conformative e di utilità sociale previste dalla legge e dagli strumenti urbanistici, secondo quanto già affermato, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, dalla Corte Costituzionale con la fondamentale sentenza n. 5/1980, ed ancora recentemente ribadito da queste stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 7454/20.

 

Il comune denominatore dei diritti edificatori in questione è dato – al di là dei menzionati obiettivi di politica generale nel governo del territorio – dalla loro riconosciuta scorporabilità dal terreno che li ha originati, e dalla conseguente loro autonoma cedibilità negoziale; intendendosi per tale la possibilità – oggi sancita dall’art. 2643, n. 2 bis cit. del loro trasferimento oneroso tra privati indipendentemente dal trasferimento del terreno. E questa autonomia, in assenza di previsioni normative ostative, viene talora concepita ed attuata in termini estremamente ampi, perché estesi fino alla possibilità di cartolarizzazione del diritto edificatorio (con circolazione assimilabile a quella dei titoli di credito), ovvero anche di sua dematerializzazione (con circolazione attestata dalle annotazioni sui “registri dei diritti edificatori” tenuti dai Comuni così come previsto da talune leggi regionali)».

 

Si è precisato, dunque, che «nel caso dell’urbanistica perequativa, si ha distribuzione paritetica e proporzionale – tra tutti i proprietari di un determinato ambito territoriale o lotto tanto del vantaggio costituito dalla edificabilità, quanto dell’onere di contribuzione ai costi di riqualificazione, urbanizzazione e realizzazione di aree a servizi di pubblica utilità o verde. In questo modo, a tutti i suoli dell’ambito territoriale di intervento viene riconosciuto un valore edificatorio costante, indipendentemente dalla effettiva e specifica collocazione, all’interno di esso, dei fabbricati assentiti; collocazione che, stante appunto l’effetto distributivo-perequativo, risulta in definitiva indifferente per i singoli proprietari, i cui terreni saranno comunque destinatari di una quota uguale di edificabilità» e che, come «ha osservato Cass. n. 27575/18 (che si è pronunciata […] sulla tassabilità Ici dei diritti edificatori rinvenienti dalla perequazione […]) […] “il meccanismo consiste nell’assegnazione all’insieme delle aree, pur con diverse destinazioni, pubbliche e private costituenti un comparto, di un indice perequativo, inferiore all’indice fondiario attribuito alle aree destinate all’edificazione. Nella sostanza il privato non subisce un vincolo e non è gravato dall’obbligo di soggiacere all’esproprio, ma sarà titolare dell’onere previsto dal piano perequativo il cui assolvimento gli permetterà di partecipare ai vantaggi del piano stesso”.

 

La perequazione limitata ad un ambito territoriale omogeneo e composto da terreni contigui trova radice in un istituto – quello del comparto edilizio – non nuovo, perchè già previsto nell’art. 870 c.c. e nell’art. 23 della L. urbanistica del 1942».

 

Ciò posto, si è pure precisato che «accanto a questa modalità di perequazione, c.d. “ristretta”, le legislazioni regionali conoscono tuttavia anche una tecnica di perequazione estesa, in forza della quale l’effetto distributivo, sia della edificabilità sia degli oneri di trasformazione, può coinvolgere anche ambiti territoriali non contigui (dunque non di comparto in senso stretto), eventualmente riferiti all’intero territorio comunale (o anche, come pure talvolta previsto, intercomunale) interessato dalla trasformazione stessa.

 

I diritti edificatori provenienti da interventi perequativi sono assegnati direttamente dal piano urbanistico e sono negoziabili a seguito dell’approvazione di quest’ultimo, ferma restando la possibilità della PA di procedere ad una successiva revisione del potere di pianificazione».

 

Diversamente, «nel caso della compensazione urbanistica (ovvero, come talvolta anche si legge, della perequazione compensativa) la PA attribuisce al proprietario un indice di capacità edificatoria (credito edilizio o volumetrico) fruibile su altra area di proprietà pubblica o privata, non necessariamente contigua e di anche successiva individuazione; ciò a fronte della cessione gratuita dell’area oggetto di trasformazione pubblica, ovvero di imposizione su di essa di un vincolo assoluto di inedificabilità o preordinato all’esproprio.

 

La compensazione urbanistica – che può prevedere anche diverse forme attuative, ad esempio di permuta tra aree, ovvero di mantenimento in capo al privato della proprietà dell’area destinata alla realizzazione di servizi pubblici, dati al medesimo in gestione convenzionata – può fungere da strumento della pianificazione generale tradizionale (compensazione infrastrutturale), ovvero dipendere dall’esigenza di tenere indenne un proprietario al quale venga imposto un vincolo di facere o non facere per ragioni ambientali-paesaggistiche (compensazione ambientale) […].

 

Il diritto edificatorio proveniente da interventi compensativi può trovare fondamento, ad esempio in ordine alla sua quantificazione, nel piano regolatore generale, ma viene assegnato (ed è dunque trasferibile tra privati) solo all’esito della cessione dell’area o dell’imposizione del vincolo; trattandosi di un istituto con funzione corrispettiva o indennitaria di un’edificabilità soppressa, esso risulta indifferente alle successive variazioni di piano.

 

Inoltre, mentre il diritto edificatorio di origine perequativa viene riconosciuto al proprietario del fondo come una qualità intrinseca del suolo (che partecipa fin dall’inizio di un indice di edificabilità suo proprio, così come prestabilito e “spalmato” all’interno di un determinato ambito territoriale di trasformazione), il diritto edificatorio di origine compensativa deriva dall’adempimento di un rapporto sinallagmatico in senso lato, avente ad oggetto un terreno urbanisticamente non edificabile, ristorato con l’assegnazione al proprietario di un quid volumetrico da spendere su altra area.

 

Nel caso del diritto edificatorio di origine compensativa, particolarmente evidente è la progressività dell’iter perfezionativo della fattispecie, dal momento che quest’ultima si articola – seguendo la metafora aviatoria utilizzata in materia dagli urbanisti – in una fase (o area) di “decollo”, costituita dall’assegnazione del titolo volumetrico indennitario al proprietario che ha subito il vincolo; di una fase (o area) di “atterraggio”, data dalla individuazione ed assegnazione del terreno sul quale il diritto edificatorio può essere concretamente esercitato; di una fase di “volo” rappresentata dall’arco temporale intermedio durante il quale l’area di atterraggio ancora non è stata individuata, e pur tuttavia il diritto edificatorio è suscettibile di circolare da sè» (Cassazione civile sez. un., n. 23902/2020).

 

Nell’ambito della Regione Lombardia tali istituti trovano il proprio fondamento normativo all’articolo 11 della L.R. n. 12/2005: tale disposizione rappresenta invero la norma cardine in relazione all’operare delle tecniche di pianificazione basate sull’utilizzo e sulla circolazione dei diritti edificatori, avendo ad oggetto – come indicato dalla stessa rubrica – i meccanismi di «compensazione, perequazione ed incentivazione urbanistica».

 

I commi da 1 a 2-ter dell’articolo in commento trattano l’istituto della perequazione: si segnala, in particolare, che il primo comma configura una forma di perequazione cd. «ristretta» ed il secondo comma di perequazione cd. «estesa» (in quanto riferita all’intero territorio comunale), mentre il comma 2-ter ha ad oggetto «forme di perequazione territoriale intercomunale»; al terzo comma viene disciplinato l’istituto della compensazione; al quarto comma il registro comunale dei diritti edificatori; infine, ai commi 5 e seguenti, viene in rilievo un’importante ipotesi di incentivazione urbanistica basata sull’assegnazione di diritti edificatori in funzione premiale[3].

 

In proposito si evidenzia che la più recente giurisprudenza amministrativa di merito ha avuto cura di chiarire che «la perequazione – disciplinata dall’art. 11, commi 1 e 2, L.R. n. 12/20015 – ha la precipua finalità di mitigare le disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica e, come tale, è esercitata discrezionalmente dall’amministrazione comunale.

 

Sul punto, è esaustivo il richiamo a quanto già osservato dalla Sezione in tema […]: “L’art. 11 della legge regionale 15 marzo 2005 n. 12 disciplina gli istituti della perequazione, della compensazione e della incentivazione urbanistica. La prima ha la finalità di eliminare le diseguaglianze che la pianificazione tradizionale produce fra proprietari di aree aventi caratteristiche simili. Tali diseguaglianze si creano in quanto, come noto, nell’ambito della pianificazione, accanto alle aree destinate ad ospitare la “città privata”, e cioè quella parte dell’edificato di pertinenza privata destinata ad ospitare edifici funzionali al soddisfacimento degli interessi della proprietà, si colloca la c.d. “città pubblica” cui vanno ascritte le aree destinate ad ospitare servizi pubblici. Queste ultime, nel modello di pianificazione tradizionale, sono private di ogni capacità edificatoria ed hanno, quindi, un valore di mercato molto basso se non nullo (a differenza delle aree che appartengono invece alla città privata le quali, proprio perché dotate di capacità edificatoria, hanno in genere valori di mercato molto alti). Al fine di ovviare a tale sperequazione, i Comuni italiani, in sede di pianificazione, adottano diverse soluzioni, perlopiù basate sull’attribuzione di un indice di edificabilità virtuale alle aree destinate alla città pubblica, non utilizzabile su tali aree ma trasferibile sui suoli suscettibili di sfruttamento edificatorio. Si assicura, in tal modo, la valorizzazione delle aree della città pubblica, atteso che esse assumono in tal modo un valore commerciabile generato appunto dal valore dei diritti edificatori che esse esprimono.

 

I modelli di perequazione previsti dalla legislazione lombarda sono due, disciplinati rispettivamente dal primo e dal secondo comma del citato articolo 11.

 

Il primo modello si identifica nella cosiddetta perequazione di comparto, in quanto incidente su aree limitate del territorio comunale inserite in un medesimo comparto. Stabilisce il primo comma dell’art. 11 che ‘sulla base dei criteri definiti dal documento di piano, i piani attuativi e gli atti di programmazione negoziata con valenza territoriale possono ripartire tra tutti i proprietari degli immobili interessati dagli interventi i diritti edificatori e gli oneri derivanti dalla dotazione di aree per opere di urbanizzazione mediante l’attribuzione di un identico indice di edificabilità territoriale, confermate le volumetrie degli edifici esistenti, se mantenuti. Ai fini della realizzazione della volumetria complessiva derivante dall’indice di edificabilità attribuito, i predetti piani ed atti di programmazione individuano gli eventuali edifici esistenti, le aree ove è concentrata l’edificazione e le aree da cedersi gratuitamente al comune o da asservirsi, per la realizzazione di servizi ed infrastrutture, nonché per le compensazioni urbanistiche in permuta con aree di cui al comma 3’. In base a questo modello, alle aree inserite in uno stesso comparto viene attribuito un identico indice edificatorio (reale), a prescindere dal fatto che le stesse siano in concreto destinate allo sfruttamento ovvero alla cessione alla mano pubblica. Il piano attuativo individua poi i suoli ove concentrare l’edificazione e quelli destinati ad ospitare le opere di urbanizzazione. Anche queste ultime aree esprimono dunque capacità edificatoria; di conseguenza, i loro proprietari conseguono, comunque, un beneficio economico che rende indifferente, sotto il profilo economico appunto, la scelta dei siti ove verrà concentrata, in concreto, l’edificazione.

 

Il secondo comma dell’art. 11 disciplina invece la perequazione c.d. ‘estesa’ in quanto riferita all’intero territorio comunale. Stabilisce tale norma che ‘sulla base dei criteri di cui al comma 1, nel piano delle regole i comuni, a fini di perequazione urbanistica, possono attribuire a tutte le aree del territorio comunale, ad eccezione delle aree destinate all’agricoltura e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica, un identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario, differenziato per parti del territorio comunale, disciplinandone altresì il rapporto con la volumetria degli edifici esistenti, in relazione ai vari tipi di intervento previsti. In caso di avvalimento di tale facoltà, nel piano delle regole è inoltre regolamentata la cessione gratuita al comune delle aree destinate nel piano stesso alla realizzazione di opere di urbanizzazione, ovvero di servizi ed attrezzature pubbliche o di interesse pubblico o generale, da effettuarsi all’atto della utilizzazione dei diritti edificatori, così come determinati in applicazione di detto criterio perequativo’. La norma prevede, quindi, l’individuazione di due indici: un indice territoriale che, con riferimento alle aree omogenee aventi caratteristiche similari collocate in specifiche parti del territorio comunale, deve essere identico; ed un indice minimo fondiario, di valore più elevato rispetto all’indice territoriale, che costituisce un valore soglia al di sotto del quale lo sfruttamento edificatorio dell’area non può avvenire. In questo modo i titolari delle aree suscettibili di sfruttamento sono costretti ad acquisire diritti edificatori dai proprietari delle aree destinate alla città pubblica, e a trasferire, dunque, a questi, parte del valore economico dei propri fondi.

 

Ora, poiché, come detto, l’istituto della perequazione ha quale propria finalità quella di evitare ingiusti trattamenti differenziati, esso presuppone che le situazioni di fatto su cui va ad incidere presentino caratteristiche analoghe. Per questa ragione, i commi primo e secondo dell’articolo 11 della l.r. n. 12 del 2005 prevedono che la perequazione operi solo per gli ambiti soggetti a trasformazione […]. Solamente quando le caratteristiche ontologiche dei suoli siano simili e tali da renderli tutti destinati all’edificazione, si rende necessario evitare che i diversi proprietari ricevano trattamenti differenziati.

 

Non è invece possibile perequare aree che abbiano caratteristiche ontologiche diverse, giacché in tal caso si creerebbero surrettizie forme di diseguaglianza. Inoltre, la legge esclude, come detto, che possano essere oggetto di perequazione i suoli agricoli e quelli inseriti in ambiti non soggetti a trasformazione (esplicito in tal senso è, come visto, l’art. 11, comma 2, della l.r. n. 12 del 2005)”».

 

Dall’altro lato – ha osservato la medesima pronuncia in esame – «l’istituto della compensazione – di cui all’art. 11, comma 3, L.R. n. 12/2005 – presuppone l’esistenza di un vincolo espropriativo e consiste in una procedura alternativa all’esproprio. A differenza della perequazione, la cessione compensativa si caratterizza per l’individuazione da parte del pianificatore di aree, destinate alla costruzione della città pubblica, rispetto ai quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di acquisizione coattiva delle aree. In queste aree, il Comune appone il vincolo pre-espropriativo ed entro il termine di cinque anni deve fare ricorso all’espropriazione, con la possibilità di ristorare il proprietario mediante attribuzione di “crediti compensativi” od aree in permuta in luogo dell’usuale indennizzo pecuniario […]. Ancora più esplicitamente, la Sezione ha chiarito che “l’istituto della compensazione, a differenza di quello della perequazione, non ha quale precipua finalità quella di mitigare le disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica: esso semplicemente mira ad individuare una forma di remunerazione alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati all’espropriazione, consistente nell’attribuzione di diritti edificatori che potranno essere trasferiti, anche mediante cessione onerosa […], ai proprietari delle aree destinate all’edificazione” (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 3 luglio 2020, n. 1279; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 29 giugno 2020, n. 1234; altresì, 21 gennaio 2019, n. 119; 30 giugno 2017, n. 1468; 2 marzo 2015, n. 596; 11 giugno 2014, n. 1542)» (T.A.R. Milano, sez. II, n. 1098/2021).

 

La predetta impostazione è stata confermata anche dal Consiglio di Stato, il quale ha rilevato che la perequazione di cui ai commi 1 e 2 della L.R. n. 12/2005 risulta «caratterizzata dalla precipua finalità di mitigare le possibili disuguaglianze che si producono con la pianificazione urbanistica secondo il tradizionale criterio della zonizzazione», mentre «la compensazione (art. 11, comma 3, della medesima legge regionale) […] presuppone l’esistenza di un vincolo espropriativo e consiste in una procedura che contempla una forma di ristoro economico del proprietario non mediante l’attribuzione dell’indennità ma con l’assegnazione di diritti edificatori. La compensazione non è tanto diretta a limitare o bilanciare le diseguaglianze implicate dalle scelte del pianificatore quanto invece a individuare una forma di remunerazione alternativa a quella pecuniaria per i proprietari dei suoli destinati all’espropriazione, che si sostanzia nell’assegnazione di diritti edificatori» (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5609/2022).

 

In argomento, infine, preme citare un importante precedente in ordine al registro comunale dei diritti edificatori: ha osservato il Consiglio di Stato che «il “registro delle cessioni dei diritti edificatori” è stato istituito in conformità al citato art. 11 comma 4 della l.r. n. 12/2005, secondo il quale “I diritti edificatori attribuiti a titolo di perequazione e di compensazione … sono commerciabili e vengono collocati privilegiando gli ambiti di rigenerazione urbana. I Comuni istituiscono il registro delle cessioni dei diritti edificatori, aggiornato e reso pubblico secondo modalità stabilite dagli stessi comuni”», ricordando «[…] come premessa, che la pubblicità degli atti concernenti i diritti edificatori è prevista e disciplinata in via generale dall’art. 2643 n. 2 bis del codice civile, come introdotto dall’art. 5 comma 3 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70 convertito nella l. 12 luglio 2011 n. 106, per cui “Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione: … 2 bis) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale…”» e che «è controversa la natura giuridica dei diritti edificatori. Nel corso degli anni sono state prospettate diverse ricostruzioni che vanno dalle teorie che ne affermano la natura reale – con diversificazioni interne (diritto di proprietà su un bene immateriale, diritto di servitù, nuovo diritto reale) – alle teorie che ne affermano la natura obbligatoria (da ultimo, si v. Cass. civ., sez. un., 9 giugno 2021, n. 16080)».

 

Orbene, si è detto, «[…] la norma riportata inserisce la pubblicità di questi diritti nel sistema della trascrizione immobiliare, disciplinato come è ben noto dal codice civile, che ne fissa in via generale i presupposti, le modalità e gli effetti, in particolare per dirimere ai sensi dell’art. 2644 c.c. i conflitti fra più aventi causa dallo stesso autore, in modo uniforme per tutto il territorio nazionale, con la sola limitata eccezione del sistema tavolare delle province ex austriache.

 

[…] Si tratta di una normativa che fa parte dell’“ordinamento civile” dello Stato, soggetto per quanto qui interessa alla competenza legislativa esclusiva dello Stato stesso ai sensi dell’art. 117 comma 1 lettera l) della Costituzione, in quanto comprende rapporti di natura privatistica, per i quali vi sono imprescindibili esigenze di uniforme trattamento su tutto il territorio nazionale (sul principio, per tutte C. cost. 23 ottobre 2007 n. 431) che escludono interventi localistici delle Regioni».

 

Ciò posto, è stato statuito che «in termini generali un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 11 comma 4 della l.r. 12/2005 esclude in radice che il registro da esso previsto possa avere una valenza generale e quindi possa porsi come strumento di pubblicità immobiliare parallelo e potenzialmente alternativo al sistema della trascrizione previsto dall’ordinamento generale; la norma va invece interpretata in modo restrittivo, limitandone l’applicazione ai soli casi in base ad essa espressamente disciplinati»: diversamente, invero, «il contrasto con l’art. 117 comma 1 lettera l) sarebbe evidente, perché si andrebbe a creare uno strumento in conflitto con l’uniformità di disciplina richiesta dalla norma costituzionale, messa in discussione non solo per quanto riguarda la Regione Lombardia, cui la norma è per definizione limitata, ma anche a livello di singolo Comune di questa Regione, dato che come si è visto l’istituzione del registro è di fatto solo eventuale, e non ne è previsto un modello uniforme».

 

Nel caso di specie – che ha interessato il capoluogo lombardo – è stato dato atto che «il Comune di Milano non ha affatto inteso muoversi in senso diverso, dato che il registro così come da esso configurato si pone come semplice strumento di pubblicità notizia, che dà per presupposto il sistema delle trascrizioni e non intende certo sostituirsi ad esso. Come pure si è visto, la disciplina concreta del registro è infatti diversa da quella dei registri immobiliari nazionali, essendo sufficiente rilevare che non prevede né un registro generale d’ordine per dare priorità ad una formalità rispetto all’altra, né un’efficacia delle iscrizioni in termini paragonabili a quella prevista dall’art. 2644 c.c. Il registro si limita invece a fornire un ausilio per la migliore conoscibilità di una categoria ben precisa di atti, quelli collegati all’attuazione del PGT approvato, con il ragionevole intento di facilitarne la commercializzazione. In tali termini, come correttamente ritenuto dal Comune, non può essere impiegato per dare pubblicità ad atti o situazioni di tipo diverso […]» (Consiglio di Stato, sez. IV, 5469/2023).

 

 

[1] https://www.exeo.it/Articoli/7470/discrezionalita-scelte-urbanistiche.aspx

[2] https://www.latribuna.it/news/i-limiti-della-tutela-delle-aspettative-edificatorie-dei-privati-rispetto-all-esercizio-di-poteri-pianificatori-urbanistici-ambientali-e-paesaggistici/

[3] Al riguardo si rimanda al disposto della norma.