Ottobre 2022 – Fiscalizzazione abusi edilizi

La cd. «fiscalizzazione» degli abusi edilizi: disamina delle ipotesi previste dagli articoli 33, comma 2, 34, comma 2 e 37, comma 1 del D.P.R. n. 380/2001

Dopo aver declinato l’attuale definizione dello «stato legittimo degli immobili» (ivi incluse le ipotesi definite di cd. «tolleranza», al ricorrere delle quali delle pur lievi difformità rispetto al progetto assentito non danno luogo ad abuso) ed analizzato i principali riferimenti normativi di cui al D.P.R. n. 380/2001 che comminano delle sanzioni in caso di interventi edilizi realizzati in difetto dei prescritti titoli abilitativi, si ritiene di proseguire la presente trattazione provvedendo alla disamina delle disposizioni che regolano la cd. «fiscalizzazione» e la cd. «sanatoria» dell’abuso edilizio, nonché illustrando la prassi della cd. «validazione».

Orbene, si è avuto modo di evidenziare come il cd. «Testo Unico Edilizia» disponga, quale sanzione principale, quella demolitoria: ciò posto, in alcuni casi – ed al ricorrere di determinate circostanze – è possibile sostituire detta sanzione, «monetizzandola», laddove non sia possibile procedere alla regolarizzazione degli abusi: l’istituto della cd. «fiscalizzazione» può operare, difatti, in via eccezionale, in presenza di opere non sanabili per mancanza del requisito della cd. «doppia conformità»[1], in alcuni casi tassativamente individuati[2] che di seguito si analizzano.

Parlando di cd. «fiscalizzazione», invero, si è soliti riferirsi alla procedura contemplata sia dal secondo comma dell’articolo 33 («Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità»), sia dal secondo comma dell’articolo 34 («Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire»), sia dal primo comma dell’articolo 37 («Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità») del D.P.R. n. 380/2001: gli articoli richiamati, come anticipato, prevedono che in luogo della sanzione demolitoria o ripristinatoria venga irrogata una sanzione pecuniaria – secondo i criteri e le modalità di cui alle stesse norme – ed è per tale ragione la cd. «fiscalizzazione» viene talvolta indicata come cd. «monetizzazione» dell’abuso.

La prima delle citate disposizioni è rappresentata dall’articolo 33 – che, come visto in precedenza[3],  ha ad oggetto gli «Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità» – il cui comma secondo stabilisce che «qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecunaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, e con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all’applicazione della legge medesima, del parametro relativo all’ubicazione e con l’equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell’articolo 16 della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile, determinato a cura dell’agenzia del territorio».

La giurisprudenza amministrativa ha precisato che l’applicabilità della sanzione pecuniaria de qua in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla rimozione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio; si è detto, inoltre, che la verifica ex articolo 33, comma secondo, va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva e non dall’Amministrazione procedente all’atto dell’adozione del provvedimento sanzionatorio (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 254/2020).

Similmente a quanto sopra, il comma secondo dell’articolo 34 – che disciplina, invece, gli «Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire» – prescrive che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale»; altrettanto similmente, anche per l’applicazione della norma de qua si ritiene che «la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall’amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione» (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 8458/2019).

Appare di grande interesse una recente sentenza resa dal Consiglio di Stato con la quale – oltre a ribadirsi che «le disposizioni dell’art. 34 d.P.R. 380/2001 devono essere interpretate nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria – posta da tale normativa – debba essere valutata dall’amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento» in quanto «la norma di che trattasi ha […] valore eccezionale e derogatorio e non compete all’amministrazione procedente di dover valutare, prima dell’emissione dell’ordine di demolizione dell’abuso, se essa possa essere applicata, piuttosto incombendo sul privato interessato la dimostrazione, in modo rigoroso e nella fase esecutiva, della obiettiva impossibilità di ottemperare all’ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (ciò per consolidato orientamento giurisprudenziale […])» – si è evidenziato, in relazione alla nozione di «parziale difformità», che «[…] secondo la giurisprudenza di questo Consiglio […] il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera; mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione».

Sotto altro profilo, rilevato che «il presupposto per dare corso al procedimento ex art. 34 d.P.R. 380/2001 è che si tratti di interventi edilizi realizzati, abusivamente, in parziale difformità dal permesso di costruire», si è posto poi in luce che «tale parziale difformità deve essere valutata in relazione al complessivo intervento edilizio abusivo realizzato e non in riferimento ad una sola parte dello stesso, anche se si tratta della sola parte residuata a seguito di demolizione parziale».

La statuizione in esame, per di più, aderendo ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ritenuto che «laddove poi l’intervento edilizio abusivo venga eseguito su fabbricato ricadente in zona paesaggistica vincolata […] si manifesta un ulteriore e decisivo ostacolo all’applicazione dell’istituto della c.d. fiscalizzazione, atteso che, ai sensi dell’art. 32, comma 3, d.P.R. 380/2001, gli interventi di cui al comma 1 della medesima disposizione (cioè quelli che configuravano ordinariamente variazioni essenziali), se effettuati su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico ed ambientale, sono considerati in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi degli artt. 31 e 44 del medesimo d.P.R., e, dunque, sottoposti sempre a demolizione totale. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali e, quindi, ancora una volta passibili di demolizione totale ai sensi dell’art. 31, comma 2, d.P.R. 380/2001» (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1/2022).

Tanto esposto non resta che richiamare il già menzionato articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001, rubricato «Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività e accertamento di conformità», con cui al primo comma si stabilisce che «la realizzazione di interventi edilizi di cui all’articolo 22, commi 1 e 2[4], in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 516 euro»[5].

In argomento – seppur con le dovute differenziazioni di cui si dirà – preme altresì segnalare il disposto di cui all’articolo 38 del D.P.R. n. 380/2001, che regola la casistica relativa agli «Interventi eseguiti in base a permesso annullato».

Con la citata norma si dispone al primo comma che «in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa».

Assume poi assoluto rilievo sotto il profilo degli effetti giuridici – atteso quanto si dirà nel prosieguo della presente trattazione[6] – il comma secondo dell’articolo de quo, il quale sancisce che «l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36».

Il comma 2-bis, infine, prevede che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 23, comma 01» – vale a dire realizzabili mediante S.C.I.A. alternativa al permesso di costruire – «in caso di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo».

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 17/2020, è intervenuta in merito all’articolo 38, definendone l’ambito di applicabilità e sciogliendo un dubbio esegetico espresso dalla contrapposizione di tre distinti indirizzi giurisprudenziali in ordine all’individuazione dei «vizi delle procedure amministrative» richiamati dalla norma in commento:

  • un primo orientamento, «secondo il quale la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo, secondo una logica che considera l’istituto come un caso particolare di condono di una costruzione nella sostanza abusiva»;
  • un secondo orientamento, sostenuto anche dalla Corte Costituzionale, «di carattere più restrittivo, secondo il quale la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile soltanto nel caso di vizi formali o procedurali emendabili, mentre in ogni altro caso l’amministrazione dovrebbe senz’altro procedere a ordinare la rimessione in pristino, con esclusione della logica del condono»;
  • un terzo orientamento, «intermedio, che si discosta da quello restrittivo per ritenere possibile la fiscalizzazione, oltre che nei casi di vizio formale, anche nei casi di vizio sostanziale, però emendabile: anche in tal caso, non vi sarebbe la sanatoria di un abuso, perché esso verrebbe in concreto eliminato con le opportune modifiche del progetto prima del rilascio della sanatoria stessa, la quale si distinguerebbe dall’accertamento di conformità di cui all’art. 36 dello stesso T.U. 380/2001 per il fatto che qui non sarebbe richiesta la “doppia conformità”[…]».

Orbene, l’Adunanza Plenaria, componendo il suddetto contrasto, ha affermato il seguente principio di diritto: «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione»[7].

[1] Con riguardo alla cd. «sanatoria edilizia» ed al requisito della cd. «doppia conformità» cfr. par. 6.

[2] T.A.R. Genova, sez. I, n. 589/2020.

[3] Cfr. par. 3.

[4] Si rammenta che l’articolo 22 del D.P.R. n. 380/2001 al primo comma stabilisce che «sono realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio di attività di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente:

  1. gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), qualora riguardino le parti strutturali dell’edificio o i prospetti;
  2. gli interventi di restauro e di risanamento conservativo di cui all’articolo 3, comma 1, lettera c), qualora riguardino le parti strutturali dell’edificio;
  3. gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), diversi da quelli indicati nell’articolo 10, comma 1, lettera c».

Ai sensi del comma secondo «sono, altresì, realizzabili mediante segnalazioni certificate di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini dell’agibilità, tali segnalazioni certificate di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori».

[5] A fini di completezza si rammenta che l’articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001 prescrive, al secondo comma, che «quando le opere realizzate in assenza di segnalazione certificata di inizio attività consistono in interventi di restauro e di risanamento conservativo, di cui alla lettera c) dell’articolo 3, eseguiti su immobili comunque vincolati in base a leggi statali e regionali, nonché dalle altre norme urbanistiche vigenti, l’autorità competente a vigilare sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile ed irroga una sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro» ed al terzo comma che «qualora gli interventi di cui al comma 2 sono eseguiti su immobili, anche non vincolati, compresi nelle zone indicate nella lettera A dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, il dirigente o il responsabile dell’ufficio richiede al Ministero per i beni e le attività culturali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al comma 1. Se il parere non viene reso entro sessanta giorni dalla richiesta, il dirigente o il responsabile dell’ufficio provvede autonomamente. In tali casi non trova applicazione la sanzione pecuniaria da 516 a 10329 euro di cui al comma 2».

Il comma quarto della norma prevede, poi, un’ipotesi di cd. «sanatoria» – fondata sul presupposto della cd. «doppia conformità» – che verrà analizzata nel dettaglio al paragrafo seguente, mentre il comma quinto sancisce che «fermo restando quanto previsto dall’articolo 23, comma 6, la segnalazione certificata di inizio attività spontaneamente effettuata quando l’intervento è in corso di esecuzione, comporta il pagamento, a titolo di sanzione, della somma di 516 euro».

La disposizione si chiude con il comma sesto, a mente del quale «la mancata segnalazione certificata di inizio attività non comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all’intervento realizzato, l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36».

[6] Cfr. par. 8.

[7] https://www.agalegale.it/2021/03/27/fiscalizzazione-dellabuso-edilizio/