S.C.I.A. e autotutela: quali poteri in capo alla P.A.? –  Limiti alla condonabilità degli abusi edilizi

S.C.I.A. e autotutela: quali poteri in capo alla P.A.?

 La disciplina generale della S.C.I.A. si rinviene all’articolo 19 della L. n. 241/1990: tale norma al primo comma prevede che «ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria. La segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, nonché, ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle imprese di cui all’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 , convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti […]».

Il comma secondo sancisce che «l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata […] dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente»: il comma terzo, tuttavia, stabilisce che «l’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere, prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa. L’atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata».

A mente del comma quarto «decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies».

Per quanto ivi di interesse si rileva che il comma 6 stabilisce che «ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni».

Il comma 6-bis ha riguardo alle ipotesi di S.C.I.A. in materia edilizia, prevedendo che in tali casi «il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380, e dalle leggi regionali».

Il comma 6-ter precisa, inoltre, che «la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104», rectius l’azione avverso il silenzio.

Orbene, non potendo in questa sede dilungarsi sulla questione a lungo dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza afferente alla natura giuridica da attribuirsi alla S.C.I.A., preme ricordare un’interessante pronuncia resa dal T.A.R. milanese con riguardo ai poteri esercitabili dalla P.A. in materia.

Con la decisione citata si è statuito che «una volta decorso il termine ordinario di trenta giorni previsto dall’art. 19, comma 3 e 6-bis, l. n. 241/1990 per l’esercizio del potere inibitorio, la pubblica amministrazione conserva comunque un residuale potere di autotutela; tale potere, con cui l’amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela, dagli artt. 21-quinques e 21-nonies l. n. 241 del 1990 (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. II, 4 febbraio 2022, n. 782).

Come chiarito anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 45 del 13 marzo 2019, “il comma 3 dell’art. 19 attribuisce alla PA un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della SCIA, dando la preferenza a quelli conformativi, “[q]ualora sia possibile”; mentre il successivo comma 4 prevede che, decorso tale termine, quei poteri sono ancora esercitabili “in presenza delle condizioni” previste dall’art. 21-novies della stessa legge n. 241 del 1990. Quest’ultimo, a sua volta, disciplina l’annullamento in autotutela degli atti illegittimi, stabilendo che debba sussistere un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, che si operi un bilanciamento fra gli interessi coinvolti e che, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, il potere debba essere esercitato entro il termine massimo di diciotto mesi. Il comma 6-bis dell’art. 19 applica questa disciplina anche alla SCIA edilizia, riducendo il termine di cui al comma 3 da sessanta a trenta giorni e prevedendo, inoltre, che, “restano […] ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali””» (T.A.R. Milano (Lombardia), sez. II, n. 1891/2022).

Tanto esposto, preme infine precisare, con riguardo al potere di annullamento in autotutela di cui all’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, che la norma de qua nella sua formulazione attualmente vigente prevede che esso venga esercitato «entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi […]».

 Limiti alla condonabilità degli abusi edilizi

 L’istituto del condono è finalizzato all’ottenimento di una sanatoria straordinaria degli abusi edilizi e nel nostro ordinamento è stato disciplinato da tre distinte normative che si sono susseguite nel tempo: ci si riferisce alla L. n. 47/1985 (cd. «Primo condono»), alla L. n. 724/1994 (cd. «Secondo condono») ed al D.L. n. 269/2003, convertito con modificazioni, in L. n. 326/2003 (cd. «Terzo condono»).

Tali normative hanno delineato l’ambito di applicabilità dell’istituto in relazione a diversi presupposti, soggetti peraltro a differenti limiti temporali oltre che volumetrici: si rileva brevemente, invero, che a differenza del cd. «Primo condono» – ove la sanabilità degli immobili non era subordinata alla consistenza dell’abuso – con le normative condonistiche successive il Legislatore ha inteso limitare la sanabilità degli abusi in relazione anche alla loro consistenza volumetrica[1].

Orbene, data l’ampiezza del tema trattato e dei profili problematici emersi nella prassi, per ovvie ragioni di sinteticità si procederà in questa sede – senza alcuna pretesa di esaustività – ad evidenziare solo alcuni degli aspetti maggiormente controversi per come emergenti dalle più recenti decisioni giurisprudenziali.

Ciò posto, preme dunque soffermarsi sulla pronuncia con cui la Corte di Cassazione ha confermato che l’applicazione del condono disciplinato dall’art. 32, comma 25, del D.L. n. 269/2003, convertito con modificazioni, in L. n. 326/2003 (cd. «Terzo condono») «esige, tra l’altro, il concomitante rispetto di un duplice limite di cubatura: 750 mc in relazione a ciascuna unità abitativa, e 3.000 mc in relazione all’intera costruzione.

A tal proposito, questa Corte ha costantemente interpretato l’art. 39, comma 1, I. n. 724 del 1994, nel senso che ogni edificio deve intendersi come un complesso unitario che fa capo ad un unico soggetto legittimato e le istanze di oblazione eventualmente presentate in relazione alle singole unità che compongono tale edificio devono esser riferite a una unica concessione in sanatoria, che riguarda quest’ultimo nella sua totalità. Ciò in quanto la ratio della norma è di non consentire l’elusione del limite legale di consistenza dell’opera per la concedibilità della sanatoria, attraverso la considerazione delle singole parti in luogo dell’intero complesso edificatorio […].

Dalle considerazioni che precedono, ne discende che non è ammissibile il condono edilizio di una costruzione interamente abusiva, quando la richiesta di sanatoria sia presentata frazionando l’unità immobiliare in plurimi interventi edilizi, in quanto è illecito l’espediente di denunciare fittiziamente la realizzazione di plurime opere non collegate tra loro, quando invece le stesse risultano finalizzate alla realizzazione di un unico manufatto e sono a esso funzionali, sì da costituire una costruzione unica […]. Il riferimento oggettivo all’unicità della nuova costruzione interamente abusiva impedisce, perciò, che il limite di 750 metri cubi possa essere aggirato mediante il frazionamento delle sue singole parti, altrimenti si eluderebbe la finalità della legge che era (ed è) quella di sanare abusi modesti.

In altri termini, in materia di condono edilizio disciplinato dalla legge 24 novembre 1994, n. 724, ai fini dell’individuazione dei limiti stabiliti per la concedibilità della sanatoria, ogni edificio va inteso quale complesso unitario qualora faccia capo ad un unico soggetto legittimato alla proposizione della domanda di condono, con la conseguenza che le eventuali singole istanze presentate in relazione alle separate unità che compongono tale edificio devono riferirsi ad un’unica concessione in sanatoria, onde evitare l’elusione del limite legale di consistenza dell’opera. Qualora, invece, per effetto della suddivisione della costruzione o della limitazione quantitativa del titolo abilitante la presentazione della domanda di sanatoria, vi siano più soggetti legittimati, è possibile proporre istanze separate relative ad un medesimo immobile […].

Di conseguenza, va riaffermato il principio giusto il quale, in tema di condono edilizio previsto dal d.l. 30 novembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, in legge 24 novembre 2003, n. 326, la presentazione di plurime istanze di sanatoria relative a distinte unità immobiliari, ciascuna di volumetria non eccedente i 750 mc., costituisce artificioso frazionamento della domanda, in caso di nuova costruzione di volumetria inferiore a 3.000 mc., la cui realizzazione sia ascrivibile ad un unico soggetto […]» (Cassazione penale, sez. III, n. 694/2024).

Con riguardo ai limiti temporali ed ai requisiti di carattere strutturale per poter beneficiare del condono edilizio, in una recentissima pronuncia il Consiglio di Stato ha invece rilevato come il T.A.R. adito in primo grado avesse correttamente evidenziato «[…] che il consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi con riguardo alla nozione di “ultimazione dell’opera” ai sensi della l. n. 724/1994 ha precisato che: “ai sensi dell’art. 39, l. 23 dicembre 1994, n. 724 la possibilità di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, già prevista dalla l. 28 febbraio 1985, n. 47, deve intendersi limitata alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 dicembre 1993, data nella quale deve essere avvenuto il completamento funzionale della struttura, per esso intendendosi uno stato di avanzamento, nella sua realizzazione, tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini, l’immobile condonabile deve consistere in un organismo edilizio con una sua configurata stabilità e adeguata consistenza planovolumetrica per il quale sia intervenuto alla predetta data l’ultimazione al rustico e cioè la intelaiatura, la copertura e i muri di tompagno […]», ricordando che la giurisprudenza amministrativa ha statuito che «in mancanza anche di una sola tompagnatura l’opera non può comunque dirsi ultimata […]» e che «in tema di condono, ai fini dell’ultimazione del fabbricato sono necessarie non solo le tompagnature esterne, ma anche l’esistenza di una copertura che ha la funzione di definire le dimensioni dell’intervento realizzato, dal punto di vista della sagoma e del volume mentre, dal punto di vista costruttivo, ha lo scopo di rendere conto della compiutezza della realizzazione stessa[…]» (Consiglio di Stato, sez. II, n. 1302/2024).

Sotto distinto profilo appare interessante anche ricordare come «il combinato disposto dell’art. 32 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 e dell’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale […] comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti condizioni: a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle opere; b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo edilizio; c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali);

– sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti (in tal senso anche la giurisprudenza penale: cfr., ex plurimis, Cassazione penale sez. III, 20 maggio 2016, n. 40676; peraltro, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 150 del 2009, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 26, lettera a), del decreto-legge n. 269 del 2003 nella parte in cui prevede la condonabilità limitata ai soli abusi minori nelle zone sottoposte a vincolo di cui all’art. 32 della legge n. 47 del 1985)» […] (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4685/2022).

Del resto, deve del pari essere rammentato che «[…] la Corte Costituzionale con la sentenza n. 196/2004 […] ha dichiarato:

– l’illegittimità costituzionale del comma 26 dell’art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326/2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all’Allegato 1.;

– l’illegittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326/2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli ivi indicati;

– l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326/2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale.

In esecuzione di tale sentenza della Corte Costituzionale è, poi, intervenuto il legislatore statale con l’art. 5 del decreto-legge 12 luglio 2004, n. 168, convertito dalla legge 30 luglio 2004, n. 191, stabilendo che la legge regionale di cui al comma 26 dell’art. 32 del decreto-legge n. 269/2003 può essere emanata entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge n. 168/2004.

[…].

Con la successiva sentenza n. 49/2006, la Corte Costituzionale ha, poi, escluso il contrasto di una serie di leggi regionali […] con l’art. 117 Cost., sotto i vari profili sottoposti al suo sindacato, riconoscendo al legislatore regionale un ampio potere discrezionale nella possibilità di definire i confini entro cui modellare gli effetti sul piano amministrativo del condono edilizio straordinario, in tema di condizioni di ammissibilità, di ampiezza e di limiti» (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4718/2018).

[1] https://www.lavoripubblici.it/news/condono-edilizio-come-funzionano-limiti-volumetrici-27552